DALLA STAMPA – “IL BONUS A PRESCINDERE UNA PIAGA DI SISTEMA” – Francesco Grillo su Il Messaggero – 12 gennaio 2016 –
La riforma dell’amministrazione pubblica italiana oppone al cambiamento una resistenza che – nel caso dei dipendenti del Comune di Roma – arriva al punto di preferirgli quello che assomiglia ad un suicidio. Proviamo seriamente a riflettere sui motivi per i quali – dopo 25 anni di battaglie titaniche – torniamo sempre alla casella iniziale nel gioco dell’oca che ha come traguardo quello mitico della valutazione della produttività dei dipendenti pubblici.
Ora che il governo diverso sta per ingaggiare la sua battaglia campale e che i nodi delle riforme incompiute stanno venendo drammaticamente al pettine, è arrivato, forse, il momento di cambiare metodo. Il momento di sostituire l’idea stessa di una “riforma” complessiva da imporre con una legge dello Stato, con quella di un progetto di trasformazione organizzativa che inizi, pragmaticamente, dalle amministrazioni che sono più pronte. Ma anche dalle emergenze più eclatanti – come quella che riguarda la Capitale – che presentano il vantaggio paradossale di non poter essere più rinviate con l’ennesima proroga.
La vicenda del “salario accessorio” al Comune di Roma mostra nella Capitale l’ennesima piaga di sistema. Va detto subito che i dipendenti del Comune rischiano di perdere una quota dello stipendio solo per avere sciaguratamente rifiutato – con un referendum di qualche mese fa – un accordo tra giunta comunale e sindacati. Un accordo che aveva almeno il merito di legare ad un qualche elemento di produttività il salario “accessorio” che per anni è stato distribuito come se fosse fisso, cioè a pioggia.
Come argomentava Oscar Giannino su queste colonne ieri, è evidente che occorre un intervento definitivo che riporti alla certezza del diritto ciò che oggi vive in un’incertezza creata da leggi contraddittorie e dagli abusi che vi si annidano regolarmente, generando intollerabili posizioni di comodo.
L’urgenza di salvare la Capitale dal caos totale può, però, diventare un’opportunità: potrebbe convincere tutti a fare proprio a Roma l’investimento di competenze necessario a costruire un sistema di valutazione semplice e condiviso che – dopo anni di convegni e patetiche imitazioni di ciò che succede nelle aziende private – manca quasi dovunque.
Ancora più preoccupante è, infatti, la circostanza che la finzione dei salari accessori sia questione molto più estesa e sistematica: riguarda altri enti locali e le aziende pubbliche; le Regioni, le università e gli stessi ministeri; non solo gli impiegati ma anche i dirigenti.
Essa si fonda, non solo, sulla diffidenza che buona parte dell’amministrazione pubblica oppone a qualsiasi tentativo di differenziare carriere e risorse allocate alle istituzioni sulla base dei risultati; ma anche sulla convinzione sbagliata che possa bastare uno dei “tavoli” che regolarmente le istituzioni convocano quando rischiano di essere travolte dall’emergenza, per dare alle amministrazioni competenze che non hanno.
Al dipartimento Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio che, pure, è la struttura che deve guidare la modernizzazione dell’amministrazione pubblica italiana, il 91% dei 150 dirigenti di seconda fascia riceve ogni anno esattamente lo stesso stipendio fino all’ultima cifra decimale (88.192,73 euro all’anno): ciò significa che sono assolutamente fisse le voci della busta paga definite “parte variabile” dalle stesse tabelle stabilite dall’amministrazione pubblica.
La realtà è che quasi tutte le amministrazioni italiane sono impreparate all’idea di misurare la prestazione: pretendere – come ha fatto il ministro Brunetta con la legge attualmente in vigore – di voler togliere fondi a chi la valutazione non la sa o può fare, significa innescare una bomba ad orologeria destinata ad esplodere in maniera, peraltro, casuale.
Che fare, dunque? La proposta è quella di rinunciare all’idea – tanto ambiziosa da diventare velleitaria – di poter cambiare tutto dall’alto ed in maniera sincronica. La riforma – se c’è – deve diventare un cantiere di trasformazioni da portare a realizzazione per settore – cominciando magari da quelli dove è più facile mettersi d’accordo su cosa misurare, ad esempio scuola , turismo, sanità – e per singole unità organizzative che vogliono fare da esploratori in un processo che deve poter ammettere la sperimentazione.
Evitando di mettere tutto insieme e di creare la complessità nella quale si sono persi tutti. Premiando chi accetta la sfida (una possibilità potrebbe essere di dargli un piccolo aumento di risorse e quote crescenti di autonomia) e costruendo meccanismi in grado di incoraggiare il trasferimento di ciò che ha dimostrato di funzionare.
Gli indicatori su cui valutare le prestazioni devono essere pochi (quelli che misurano le competenze degli studenti nelle scuole, il numero di biglietti per i musei, il tasso di successo per determinate cure) e adattabili al singolo territorio.
Devono essere comprensibili e controllabili dagli stessi cittadini per utilizzarli come alleati per superare le resistenze e di essi devono rispondere i dirigenti – ed è sui dirigenti che si sta giustamente focalizzando il Ministro Madia – lasciando a costoro di decidere come, a loro volta, valuteranno i propri dipendenti.
Il progresso, infine, della riforma va controllato e per farlo, si usi qualunque merito, anche le diapositive che usa il presidente del Consiglio per controllare l’avanzamento del suo programma di governo, aggiungendovi tempi, responsabilità e traguardi intermedi.
Il dipartimento Funzione Pubblica va, probabilmente, rinnovato per diventare un modello di come si supera l’autoreferenzialità di cui l’amministrazione pubblica soffre e al cambiamento deve essere totalmente dedicato: ai suoi dirigenti andrebbero assegnati gli specifici capitoli della riforma al cui conseguimento dovranno seguire progressioni di carriera e remunerazioni che non potranno che essere molto più differenziate.
Si fa presto a dire riforma. In realtà essa è un cantiere che richiede grandissime doti di leadership, tempi che sono, ovviamente, più lunghi di una legislatura. Visione sull’importanza della posta finale e pragmatismo di cominciare da risultati a breve che convincano tutti che il cambiamento conviene.